giovedì 13 agosto 2009

Le "palore" dei marsalesi


Quasi sei anni fa ho scritto un pezzo sul rapporto tra i marsalesi e la "parola". L'articolo è stato appezzato ed è arrivato addirittura (tramite posta e le moderne mail) negli Stati Uniti, dove risiedono tanti cittadini di origine siciliana, lettori del mio Blog.

Il rapporto con questi adesso è ricorrente: loro continuano a leggere quello che scrivo e io comunico con loro da amico. Su invito di alcuni di questi ho deciso di riproporre questo mio "commento": sono passati più di 1800 giorni e "Il Fannullone" ancora non era nato.

Il marsalese sa bene che una cosa sono le parole e un'altra cosa sono le "palore" (con la elle). Con le parole il cittadino lilibetano ha un rapporto esagerato: troppo poche ('a megghiu parola è chiddra chi un si dice) o troppo assai.

Le "palore" sono invece vocaboli del tutto speciali e raggruppano gran parte del dizionario marsalese, sintetizzando con un unico termine, appunto, la portata dell'assalto verbale di cui il cittadino di Marsala è capace nei confronti del suo interlocutore. E l'offesa si misura in termini di "palore". Il che vuol dire che un ragionamento non può mai essere aggressivo e non può offendere: "Ma picchì si sta comportanno na 'sta manera? Non è chi ci risse palore!".

Il ricorso a un termine sintetico ha sicuramente origini scolastiche. Non si poteva certo accusare all'insegnante, il compagno che aveva appena finito di dirti "figghiu di buttana", citando pari pari la frase spregiativa. Così si ricorreva a una sintesi: "Prefessù, Zichittella mi dice palore su mio padre e su mia madre".

La "palora" viene spesso addirittura minacciata: "Salvatò, dicci a tò matre chi si un na finisce di ittare acqua 'na strata, ci vaio e ci dico palore". Lo sviluppo delle "palore" può raggiungere complessità che passa dal tragico al ridicolo. Nel settore "cornuti" troviamo: "U cervo n'confronto a tia è tignuso"; "Sei più cornuto di un camion di babbaluci".

Nel settore "escrementi" emerge: "La differenza tra te e un tir di merda e che 'u tir avi i rote e tu hai i scaippe". Gli insulti che coinvolgono la discendenza sono irripetibili ma vale la pena sottolineare che, quasi sempre, riguardano le madri piuttosto che i padri e che tendono a sottolineare le qualità erotiche delle stesse.

Nel caso della madre (degli altri) si va giù pesante e le si attribuisce l'intero repertorio del Kamasutra. Nei confronti dei padri, invece, quasi mai viene messa in discussione l'identità sessuale. Insomma, difficilmente un padre è "arruso". Verso i padri si punta alla mortificazione della sua condizione di capo famiglia, sia in termini di marito di "moglie buttana" (bersaglio preferito), sia soprattutto in termini di capo del nucleo familiare. In questo caso gli vengono attribuiti i mestieri più infimi: viddrano, munnizzaro ecc... Ma poiché i tempi cambiano, nessuno oggi si sogna di dire al compagno di banco: "Tuo padre è un munnizzaro!".

Difficilmente sentirete invece l'accusa "delinquente". Dalle parti nostre è quasi un "mestiere" che si fa sotto la copertura di mille giustificazioni, della serie: "La colpa è della società". Il che, ahimè, è molte volte non lontano dal vero.

Ma se le "palore" sono pietre, e in quanto tali sono piuttosto pesanti, spesso sono anche decisamente leggere.

Andate a un anniversario di matrimonio e partecipate alla festa. Se alla fine sarà il momento del karaoke, la zia Terina romperà il ghiaccio, impugnerà il microfono (ingrassata quanto Platinette) e nel tripudio generale, imitando Mina, intonerà: "Palore, palore palore...".

Senza palore,
Enzo Amato

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