Balotelli e la pistola giocattolo. Prigioniero delle sue bravate.
Cominciamo bene. Sono giorni che ci riempiamo la bocca e le pagine con Balotelli (e relativa generazione) e la storia che dovrebbe risollevare l'Italia del pallone dopo lo sprofondo sudafricano, che ci autoflagelliamo con il Paese per vecchi, che ci spelliamo le mani per la Germania multietnica e lui, SuperMario, che cosa ti combina?
Un'altra delle sue bravate: Milano, sei di un pomeriggio appiccicoso in piazza della Repubblica. Pieno centro. Mario e tre amici sparano in aria con una pistola, qualcuno vede e soprattutto sente e chiama la polizia: in un attimo la "banda dei quattro" viene fermata a bordo dell'Audi del giocatore dell'Inter.
"È vero, ho sparato" ammette Balotelli. Controllo della pistola: è una scacciacani, il tappo è rosso. Insomma, una stupidaggine. "Chiedo scusa, è stata una ragazzata".
Finisce così: nessun provvedimento perché poi niente c'era da provvedere, però. Però, sparare in aria così tanto per fare qualcosa non è come non capire i movimenti del 4-3-3, assomiglia più a un fuorigioco. Dal buon senso.
Per l'attaccante dell'Inter sono i giorni della maturità (iscritto da privatista a Ragioneria) e così tra un libro e una lettura di un bilancio deve essersi preso quella mezz'ora d'aria in attesa degli orali. O forse, chissà, festeggiava un po' sopra le righe la vittoria tedesca sull'Inghilterra.
Balotelli è fatto così, provare a capirlo è inutile quanto faticoso. In più è affare della sua famiglia, quella che l'ha preso in affido 17 anni fa, lui nato Barwuah a Palermo e diventato Balotelli in provincia di Brescia, a Bagnolo Mella. All'ufficio anagrafe ancora se lo ricordano nei giorni decisivi per l'affido, quel bimbo di due anni non stava mai fermo, saltava sulla scrivania scombiccherando l'ordine del funzionario comunale. In fondo non è mai cresciuto.
È stato capace di confessare il tifo per il Milan a una pattuglia di studenti senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze. Che ovviamente ci furono, ma che altrettanto ovviamente, per la logica che ordina il mondo di Balotelli, gli fecero il solletico. Un colpo a salve anche quello a ben guardare.
Ingenuo, geniale, strafottente, presuntuoso, insopportabile: sfilza di aggettivi che si appiccicano comodamente sulla larghe spalle del campioncino dell’Inter. Tirato in ballo ogni volta che serve un esempio, non sempre edificante, di un Paese che sta cambiando pelle e velocità: "generazione Balotelli" è il logo applicato anche fuori dagli stadi.
Dentro, invece, diventa un insulto: "Non esistono negri italiani": la zavorra che Mario si porta in giro tutte le domeniche, un po' fa finta di niente, ma quando poi girano lo fa sapere a tutti: "Il pubblico di Verona mi fa schifo": così sbottò dopo l'ennesimo rosario sgranato dalle curve. Divide e dividerà: gli stadi, i tifosi (anche quelli dell'Inter), gli allenatori.
Mario Balotelli ha in mano il proprio futuro, a volte sembra che lo voglia buttare via, altre invece se lo palleggia come fosse al limite dell’area di rigore. Comunque vada, fa sempre rumore. Anche quando spara a salve.
Cominciamo bene. Sono giorni che ci riempiamo la bocca e le pagine con Balotelli (e relativa generazione) e la storia che dovrebbe risollevare l'Italia del pallone dopo lo sprofondo sudafricano, che ci autoflagelliamo con il Paese per vecchi, che ci spelliamo le mani per la Germania multietnica e lui, SuperMario, che cosa ti combina?
Un'altra delle sue bravate: Milano, sei di un pomeriggio appiccicoso in piazza della Repubblica. Pieno centro. Mario e tre amici sparano in aria con una pistola, qualcuno vede e soprattutto sente e chiama la polizia: in un attimo la "banda dei quattro" viene fermata a bordo dell'Audi del giocatore dell'Inter.
"È vero, ho sparato" ammette Balotelli. Controllo della pistola: è una scacciacani, il tappo è rosso. Insomma, una stupidaggine. "Chiedo scusa, è stata una ragazzata".
Finisce così: nessun provvedimento perché poi niente c'era da provvedere, però. Però, sparare in aria così tanto per fare qualcosa non è come non capire i movimenti del 4-3-3, assomiglia più a un fuorigioco. Dal buon senso.
Per l'attaccante dell'Inter sono i giorni della maturità (iscritto da privatista a Ragioneria) e così tra un libro e una lettura di un bilancio deve essersi preso quella mezz'ora d'aria in attesa degli orali. O forse, chissà, festeggiava un po' sopra le righe la vittoria tedesca sull'Inghilterra.
Balotelli è fatto così, provare a capirlo è inutile quanto faticoso. In più è affare della sua famiglia, quella che l'ha preso in affido 17 anni fa, lui nato Barwuah a Palermo e diventato Balotelli in provincia di Brescia, a Bagnolo Mella. All'ufficio anagrafe ancora se lo ricordano nei giorni decisivi per l'affido, quel bimbo di due anni non stava mai fermo, saltava sulla scrivania scombiccherando l'ordine del funzionario comunale. In fondo non è mai cresciuto.
È stato capace di confessare il tifo per il Milan a una pattuglia di studenti senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze. Che ovviamente ci furono, ma che altrettanto ovviamente, per la logica che ordina il mondo di Balotelli, gli fecero il solletico. Un colpo a salve anche quello a ben guardare.
Ingenuo, geniale, strafottente, presuntuoso, insopportabile: sfilza di aggettivi che si appiccicano comodamente sulla larghe spalle del campioncino dell’Inter. Tirato in ballo ogni volta che serve un esempio, non sempre edificante, di un Paese che sta cambiando pelle e velocità: "generazione Balotelli" è il logo applicato anche fuori dagli stadi.
Dentro, invece, diventa un insulto: "Non esistono negri italiani": la zavorra che Mario si porta in giro tutte le domeniche, un po' fa finta di niente, ma quando poi girano lo fa sapere a tutti: "Il pubblico di Verona mi fa schifo": così sbottò dopo l'ennesimo rosario sgranato dalle curve. Divide e dividerà: gli stadi, i tifosi (anche quelli dell'Inter), gli allenatori.
Mario Balotelli ha in mano il proprio futuro, a volte sembra che lo voglia buttare via, altre invece se lo palleggia come fosse al limite dell’area di rigore. Comunque vada, fa sempre rumore. Anche quando spara a salve.
Paolo Brusorio, La Stampa
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