Quando per educare un figlio la madre chiama i carabinieri.
Un ragazzino di 13 anni era ossessionato dai videogiochi. I militari gli hanno sottratto la Playstation.
Che cosa fare con un figlio adolescente che rimane per giorni attaccato al suo videogioco, rintanato in camera, rinunciando ad andare a scuola e rifiutando persino il cibo? Che cosa fare? Troppo tardi per minacciarlo con il classico: guarda che chiamo il lupo cattivo!
Un tredicenne non si fa certo intimorire da così poco, e oggi forse anche un bambino di tre anni ci farebbe su una sana risata. Troppo presto per urlare: o la smetti o ti sbatto fuori di casa! Troppo pericoloso cercare di farlo rinsavire con due schiaffoni: i ragazzi di quell'età, oggi, non si sa mai come possono reagire.
E poi le sberle sono decisamente fuori moda. Dunque, che fare? Una mamma dei dintorni di Genova, dopo averle provate tutte, ha deciso di chiamare i carabinieri, come facevano una volta le mogli di fronte a unmarito violento. E pare, infatti, che il ragazzo ricorresse alla violenza allorché la madre cercava di distoglierlo dalla sua ossessione.
Insomma, i carabinieri sono arrivati e, dall'alto della loro autorità, hanno fatto quel che i genitori, a quel punto, non sarebbero mai riusciti a fare: hanno sequestrato al ragazzino la console con alcuni "wargame", il cui uso, peraltro, era autorizzato solo agli adulti. Pare che il giovane avesse da poco scoperto la possibilità di collegarsi online con altri utenti per giochi della durata di diversi giorni.
La notizia è di quelle degne di far riflettere a più livelli, e sono domande pressoché tutte scontate: sulla dipendenza psichica indotta da certi congegni elettronici; sulla reclusione volontaria cui si sottopone un ragazzo isolandosi dal mondo esterno; sul potere (quasi nullo?) che ha la famiglia di rompere questa rassicurante ed estraniante coazione a ripetere. Sulle relazioni "deboli" di padri e madri con i figli; sul nuovo rapporto degli adolescenti con la realtà (virtuale e/o fisica) eccetera.
Diciamo la verità, anche in tempi di famiglie in bilico come i nostri, non è facile accettare alla cieca l'escamotage di quella madre quarantenne (probabilmente in preda a una crisi di nervi): delegare all'autorità costituita la propria responsabilità, per richiamare al mondo il figlio inebetito o in fuga verso altri pianeti non necessariamente felici, anzi.
Ma pur riconoscendo che non è un gran segno di autorevolezza, non è neanche difficile mettersi nei suoi panni (a proposito, dov'era il padre, nel frattempo?): per rompere la routine autistica dell'isolamento adolescenziale, diciamo alla disperata, possono andar bene anche i carabinieri.
In fondo sappiamo che negli ultimi anni si sono moltiplicati i casi di adolescenti depressi rimasti barricati nella propria stanza per anni, vittime di giochi elettronici o di altre prigioni online: ne è nata anche un'ampia bibliografia che classifica questi fenomeni generazionali con il termine giapponese hikikomori, che letteralmente significa "confinati", "chiamati fuori".
Certo, il ricorso al carabiniere ha tutta l'evidenza dell'ultima spiaggia per genitori disperati: la stessa che induce, appunto, una moglie maltrattata a chiamare il 118. Una terapia choc.
Sarebbe stato molto meglio non arrivare a tanto, ovvio: evitare l'apartheid domestico (è il sociologo Zygmunt Bauman a ritenere che ormai si vive in tanti bunker privati autosufficienti anche all'interno delle proprie case) e magari favorire nei figli un senso della realtà attraverso l'imposizione di qualche limite senza necessariamente aborrire tutto ciò che crea conflitto e divisione.
È pur vero che se in passato si sbagliava per eccesso di sicurezza autoritaria (che si chiamava autoritarismo), oggi i genitori sbagliano perché hanno troppo timore di sbagliare: e preferiscono eclissarsi o evitare di prendere posizione. Una telefonata tempestiva ai carabinieri risolve le emergenze (e può essere una fortuna), non aiuta certo a crescere i propri figli.
Un ragazzino di 13 anni era ossessionato dai videogiochi. I militari gli hanno sottratto la Playstation.
Che cosa fare con un figlio adolescente che rimane per giorni attaccato al suo videogioco, rintanato in camera, rinunciando ad andare a scuola e rifiutando persino il cibo? Che cosa fare? Troppo tardi per minacciarlo con il classico: guarda che chiamo il lupo cattivo!
Un tredicenne non si fa certo intimorire da così poco, e oggi forse anche un bambino di tre anni ci farebbe su una sana risata. Troppo presto per urlare: o la smetti o ti sbatto fuori di casa! Troppo pericoloso cercare di farlo rinsavire con due schiaffoni: i ragazzi di quell'età, oggi, non si sa mai come possono reagire.
E poi le sberle sono decisamente fuori moda. Dunque, che fare? Una mamma dei dintorni di Genova, dopo averle provate tutte, ha deciso di chiamare i carabinieri, come facevano una volta le mogli di fronte a unmarito violento. E pare, infatti, che il ragazzo ricorresse alla violenza allorché la madre cercava di distoglierlo dalla sua ossessione.
Insomma, i carabinieri sono arrivati e, dall'alto della loro autorità, hanno fatto quel che i genitori, a quel punto, non sarebbero mai riusciti a fare: hanno sequestrato al ragazzino la console con alcuni "wargame", il cui uso, peraltro, era autorizzato solo agli adulti. Pare che il giovane avesse da poco scoperto la possibilità di collegarsi online con altri utenti per giochi della durata di diversi giorni.
La notizia è di quelle degne di far riflettere a più livelli, e sono domande pressoché tutte scontate: sulla dipendenza psichica indotta da certi congegni elettronici; sulla reclusione volontaria cui si sottopone un ragazzo isolandosi dal mondo esterno; sul potere (quasi nullo?) che ha la famiglia di rompere questa rassicurante ed estraniante coazione a ripetere. Sulle relazioni "deboli" di padri e madri con i figli; sul nuovo rapporto degli adolescenti con la realtà (virtuale e/o fisica) eccetera.
Diciamo la verità, anche in tempi di famiglie in bilico come i nostri, non è facile accettare alla cieca l'escamotage di quella madre quarantenne (probabilmente in preda a una crisi di nervi): delegare all'autorità costituita la propria responsabilità, per richiamare al mondo il figlio inebetito o in fuga verso altri pianeti non necessariamente felici, anzi.
Ma pur riconoscendo che non è un gran segno di autorevolezza, non è neanche difficile mettersi nei suoi panni (a proposito, dov'era il padre, nel frattempo?): per rompere la routine autistica dell'isolamento adolescenziale, diciamo alla disperata, possono andar bene anche i carabinieri.
In fondo sappiamo che negli ultimi anni si sono moltiplicati i casi di adolescenti depressi rimasti barricati nella propria stanza per anni, vittime di giochi elettronici o di altre prigioni online: ne è nata anche un'ampia bibliografia che classifica questi fenomeni generazionali con il termine giapponese hikikomori, che letteralmente significa "confinati", "chiamati fuori".
Certo, il ricorso al carabiniere ha tutta l'evidenza dell'ultima spiaggia per genitori disperati: la stessa che induce, appunto, una moglie maltrattata a chiamare il 118. Una terapia choc.
Sarebbe stato molto meglio non arrivare a tanto, ovvio: evitare l'apartheid domestico (è il sociologo Zygmunt Bauman a ritenere che ormai si vive in tanti bunker privati autosufficienti anche all'interno delle proprie case) e magari favorire nei figli un senso della realtà attraverso l'imposizione di qualche limite senza necessariamente aborrire tutto ciò che crea conflitto e divisione.
È pur vero che se in passato si sbagliava per eccesso di sicurezza autoritaria (che si chiamava autoritarismo), oggi i genitori sbagliano perché hanno troppo timore di sbagliare: e preferiscono eclissarsi o evitare di prendere posizione. Una telefonata tempestiva ai carabinieri risolve le emergenze (e può essere una fortuna), non aiuta certo a crescere i propri figli.
Paolo Di Stefano
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